lunedì 27 gennaio 2014

Di Battista scorticato vivo

Di Battista, il soldatino di Casaleggio in TV

Alessandro di Battista non viene dal nulla del web: conosceva già bene Casaleggio perché aveva lavorato con lui. Poi è finito in parlamento con qualche click. In più è belloccio, furbo e narcisista. Ovvio che sia stato scritturato dal guru e selezionato tra i pochi fedeli scelti per fare corsi di comunicazione televisiva.
Come con un novello Justin Bieber, i fans scatenati aspettavano l'evento di vederlo in TV da giorni postando cuoricini e frasi d'incitamento sui social network. L'epifania dunque c'è stata e da Santoro il tronista/cittadino/attivista si è profuso nella solita cantilena fatta di slogan, stavolta personalizzati e calibrati sul personaggio. Voce soffusa, sguardo che ogni tanto cadeva in basso (qualcuno ha pensato in cerca del gobbo suggeritore) e frasi da Che Guevara de noantri ma post ideologiche: " Letame, cucchiaini, onestà, morirei per l'Italia". E giù i fans che nel frattempo inondavano il web di tweet, uniti alla claque del pubblico nello studio.
Questo è un esempio di consenso costruito a tavolino dall'agenzia Casaleggio che bisogna dirlo, ci sa fare. Prendi un bel ragazzotto loquace e voglioso di emergere, aggiungi quel tot di eroicità dovuta a i suoi viaggi nel terzo mondo, fagli dire " fratelli africani", farcisci tutto di post ideologia che tanto poi che abbia aggiunto " dovete stare a casa vostra", se ne accorgono in pochi. Dibba è un prodotto perfetto per l'era dello spettacolo e della politica fatta a colpi di marketing. Che suoni falso come una risata di Fabrizio Frizzi, chi se ne frega: se ne accorgeranno solo quattro professoroni della casta o qualche troll pagato dal PD.
Tutto il resto de Laggente no, applaudirà il nuovo personaggio, che eroicamente si è esposto alla tortura televisiva, lui , che proprio non ci voleva andare perché è duro e puro, lui che in aula commemora Che Guevara! Voilà, una spruzzatina di antiberlusconismo, un accenno alla mafia e al complotto massonico, un'ammiccata e il gioco è fatto.
"Siamo intransigenti", recitava il portavoce della Casaleggio associati davanti ad un Travaglio estasiato, beh non siete i soli ad esserlo e per fortuna a queste ipnosi da marketing non ci cascano tutti. A prescindere dalle visioni politiche o di vita. Il costruito, il posticcio, la recita si è percepita. Tutti cercano la maggioranza per governare gli altri, fortunatamente c'è ancora chi, in direzione ostinata e contraria, non si vuol far governare e imbonire, tanto meno da prodotti di marketing del terzo tipo visto che il primo tipo l'abbiamo sperimentato per 20 anni e il secondo sta spadroneggiando nel PD.

sabato 25 gennaio 2014

Incredibile Paola Taverna in Abruzzo

Video

Chomsky: i giornali meglio dei blog

Internet e i nuovi media, spazi innovativi che per molti potrebbero contribuire a spezzare il "circolo vizioso del potere", secondo Noam Chomsky portano invece con sé nuovi pericoli.
"Mi sembra che spesso i nuovi media portino a una visione più ristretta del mondo, perché le persone sono attratte dai mezzi che esprimono esattamente la loro stessa concezione", ha spiegato infatti il linguista, a Roma per una conferenza.
"Su un giornale come il New York Times si trovano ancora opinioni differenti, un blog tende invece ad averne una sola".

Corridoio o finestrino

Splendido esempio di democrazia diretta, il referendum di Grillo sulla legge elettorale. Velocissimo: evitando di assillare i cittadini avvisandoli, che so, il giorno prima, lui ha convocato i votanti con un preavviso di mezz' ora e ha dato loro nove ore per rispondere alla domanda «proporzionale e maggioritario?» (quesito secco, come «minerale o frizzante?» e «corridoio o finestrino?»). 


Ma la novità rivoluzionaria è stata la «campagna informativa»: invece di dare la parola a un sostenitore del proporzionale e a uno del maggioritario, il complicato dilemma è stato illustrato da un solo esperto (casualmente, un proporzionalista convinto). E alla fine, con uno spoglio-lampo che non ha avuto bisogno di inutili scrutatori, ha vinto - indovinate - il proporzionale. Questa è democrazia, signori, non quella pagliacciata che chiamano Parlamento.

SEBASTIANO MESSINA  La Repubblica


giovedì 23 gennaio 2014

Paola Taverna, stella a 5 stelle

NUOVI PERSONAGGI: PASSIONI E PICCOLI SEGRETI DELLA SENATRICE-POETESSA GRILLINA

Insulta Berlusconi, è adorata dagli attivisti (che però, se serve, tratta male), il suo slogan «Parlamentari siete Gneeente!» spopola in rete. Ormai è diventata la più popolare del movimento di Grillo e Casaleggio



di Mauro Suttora

Oggi, 3 gennaio 2014

«Vabbe’, sempre de me stamo a parla’? Niente personalismi, sono più importanti le idee. Nun t’azzarda’ a ffa’ gossip, ggiornalista...».
E giù una gorgogliante risata, di quelle che sdrammatizzano. Perché lei è famosa anche come la Trilussa grillina: scrive sonetti in romanesco che affilano tutti. «Compresi i miei colleghi 5 stelle se mettono su qualche sussiego di troppo, con le loro cravatte da parlamentari».

È scatenata, Paola Taverna, 44 anni, donna fiera delle proprie origini borgatare. Vive col figlio a Torre Maura, ma è nata e cresciuta al Quarticciolo, quartiere popolare dove Mussolini sistemò gli sfrattati dopo gli sventramenti di via della Conciliazione.

Palazzo Madama, secondo piano. Parla con Oggi nel suo ultimo giorno da presidente dei senatori del Movimento 5 stelle (i capigruppo del M5s ruotano ogni tre mesi).

Perché così spesso?
«Pratichiamo quel che predichiamo. Siamo normali cittadini che offrono un breve periodo - massimo due mandati - al servizio pubblico. E anche le cariche interne ruotano».

Bilancio del suo trimestre?
«Ottimo. Anzi, pessimo. La politica in questi palazzi è peggio di quel che pensavo. Ogni giorno una schifezza: tangenti sul terremoto dell’Aquila, consiglio regionale illegale in Piemonte, telefonate imbarazzanti della ministra Nunzia De Girolamo... Sembra che i partiti facciano a gara per stancare la gente e regalarci voti».

Davvero peggio di quanto immaginasse?
«Ripeto: ogni giorno una porcata. Ci hanno appena detto no al taglio delle pensioni d’oro, all’aumento di quelle minime da finanziare con tasse sul gioco d’azzardo, no a un dibattito sui ministri in bilico come la Cancellieri. In compenso è passata la privatizzazione della Banca d’Italia, che regalerà decine di milioni alle banche private».

Paola Taverna ormai è diventata una stella dei 5 stelle. Dopo Beppe Grillo e il misterioso Richelieu Gianroberto Casaleggio, è lei la più amata. Ogni volta che mette un post su Facebook le arrivano centinaia di “mi piace” in pochi minuti. I suoi video su Youtube hanno migliaia di visualizzazioni.

La invitano in tutta Italia nei week-end, neanche fosse la Madonna pellegrina: da Pomigliano (Napoli) ai paesi terremotati dell’Emilia. Radio 105 ha addirittura inaugurato una rubrica satirica (Casa Taverna) in cui la dipingono come una casalinga collerica. E dopo il suo discorso contro Silvio Berlusconi in Senato, sono nati fan club scherzosi come i Tavernicoli o la Senatruce col mattarellum.

Durante un comizio si era lasciata andare: «A Silvio je sputo in testa». Scuse ufficiali, ma grillini in delirio. «Sì, in effetti ci sono toni un po’ da tifo in giro», ammette lei. «Ma è naturale, finché questi non schiodano. La gente è stufa, metà non va più a votare».

Beh, questo lo sappiamo da anni.
«Però ora i nodi vengono al pettine. All’ultimo V-day di Grillo, in piazza a Genova a dicembre, mi hanno assediato centinaia di signore, giovani, anziani che mi imploravano: “Siete la nostra ultima speranza!”».

E lei come risponde?
«Attivatevi in prima persona, non fidatevi più dei politici di carriera».

Ora però c’è Renzi. È più nuovo di voi.
«Nuovo quello? Ma se è in politica da vent’anni».

Vuole tagliare un miliardo l’anno di costi, cominciando dal Senato.
«Cominciasse a tagliarsi lui il finanziamento pubblico Pd. Noi abbiamo rinunciato a 40 milioni, e prendiamo solo 2.900 euro al mese di stipendio».

 Lei quanto guadagnava prima?
«Novecento euro, part-time in un ambulatorio di analisi mediche. Lavoro da quando avevo 19 anni, dopo l’istituto linguistico. Mancò mio padre, addio università».

Torniamo al movimento: com’è finita coi dissidenti?
«Quali dissidenti? Si parla, ci si confronta. Nei miei tre mesi, niente problemi».

Ma se vi siete spaccati anche per eleggere il suo successore, Maurizio Santangelo: 26 ‘talebani’ contro 23 ‘dialoganti’.
«Non ci siamo ‘spaccati’, abbiamo solo votato. È la democrazia, la applichiamo fra noi. Non siamo teleguidati da Grillo. Comunque, sulle cose importanti siamo uniti».

Una legge che è riuscita a far passare?
«Ho trovato i soldi per lo screening neonatale delle malattie rare».

Interessi extrapolitici?
«Mio figlio. È tutta la mia vita. E gioco a Candy Crush sul telefonino».

I due collaboratori, Ilaria e Fabio Massimo, la avvertono: deve andare a una riunione del movimento. Li accompagno al Testaccio, ci sono una settantina di attivisti. Atmosfera surreale: un’assemblea per decidere come fare un’altra assemblea. Quando arriva la applaudono, perché non si dà mai arie.

Poi però gli oratori si perdono in quisquilie organizzative, e la senatrice si trasforma in pantera, chiede la parola, non esita a dire in faccia ai noiosi militanti “de bbase” quel che pensa. Qualcuno la fischia. Lei non si scompone, anzi rincara. Proprio come nel suo discorso ormai leggendario, quando urlò la famosa invettiva ai senatori: “Siete gneeente!”

Il presidente del Senato Piero Grasso non la interruppe. Anzi, sorrideva sornione. Dicono abbia un debole per la focosa Taverna. E gli mancherà, alle riunioni dei capigruppo che lei rendeva sempre frizzanti.
Mi scuso per il gossip.
Mauro Suttora

lunedì 20 gennaio 2014

Grillo e Berlusconi: politica personalizzata e spettacolarizzata

Non chi dice “Rete, Rete” entrerà nel Regno dei Network

di Pierfranco Pellizzetti

Vanguardia Dossier n° 50, enero/marzo 2014

14 gennaio 2014

Il successo politico di Beppe Grillo si è basato sul rifiuto dei media mainstream e su una campagna sviluppata esclusivamente attraverso il suo blog personale. Ma questo fenomeno può essere considerato come un esempio di democrazia - più a parole che nei fatti, in realtà - per interagire con un pubblico globale? 

Beppe Grillo (Genova, 1948) è stato definito il “Coluche italiano”, con riferimento al comico che nel 1981 osò sfidare François Mitterrand nelle elezioni presidenziali francesi. Del resto, i due si conobbero nel 1985 sul set del film “Scemo di guerra”. 

Ora si può dire che l’allievo ha surclassato il maestro; visto che, nelle elezioni politiche del febbraio scorso, l’ex showman italiano ha conquistato con il movimento di cui è leader (Cinquestelle, M5S) un quarto abbondante dei suffragi (circa 8,7 milioni). Un risultato senza precedenti, che ha fatto eleggere in Parlamento ben 163 candidati, tra senatori (54) e deputati (109), subito soprannominati “grillini”. 

In particolare alla Camera, dove la base dei votanti è più giovane, M5S risulta il primo partito nazionale con il 25,5% dei voti, contro il 25,4 del Centrosinistra (PD) e il 21, 5 andato alla destra di Berlusconi (PDL). L’età media dei suoi rappresentanti risulta di 33 anni: una piccola rivoluzione, stante la tradizionale gerontocrazia della politica italiana, in quella più grande, rappresentata dal boom di consensi per un movimento nato da neppure tre anni e mezzo (4 ottobre 2009). 

Considerando che la sua campagna vittoriosa è stata contrassegnata dal rifiuto di qualsivoglia contatto con gli organi di informazione tradizionali – stampa e televisione – di cui Grillo denuncia costantemente la compromissione con il potere, svolgendosi esclusivamente attraverso il blog intestato al leader (il più visitato in Italia, nonché stimato dai rating di settore tra i cinquanta “più potenti al mondo”), è risultato quasi inevitabile spiegare l’accaduto come un chiaro effetto della “potenza della rete”. 

Ma davvero il “caso Grillo” è completamente inquadrabile nell’ormai classico paradigma di Manuel Castells della “autocomunicazione orizzontale di massa” (l’interazione attraverso Internet che ha la possibilità di raggiungere un pubblico globale, in cui la produzione dei messaggi è autogenerata e la definizione dei potenziali destinatari autodiretta)? O non piuttosto il blend grillino è una strana miscela di nuovo e di antico? Per chiarirlo bisogna procedere con ordine. 

Il futuro comico prestato alla politica nasce a Genova, città di antiche tradizioni operaie, in un quartiere abitato da piccola borghesia di orientamento genericamente conservatore. Suo padre produce artigianalmente cannelli di saldatura e il giovane Grillo si diploma ragioniere per poi sperimentare varie attività, tra cui il piazzista di capi d’abbigliamento. 

Infine trova la sua strada nel mondo del cabaret, specializzandosi in lunghi monologhi di generica critica di costume, in cui riesce a far diventare spassosi i luoghi comuni di un umore genericamente protestatario, proprio dell’ambiente di provenienza (il mugugno, caratteristico dell’ethos genovese; quasi una sorta di rauxa catalana, però laconica). Così si fa notare, tanto da essere ingaggiato dalla televisione nazionale nel 1977, dove conoscerà un primo successo di massa.

Finché il 15 novembre 1986, preso dal caratteriale entusiasmo affabulatorio, non commetterà l’imprudenza di attaccare colui che in quel momento è “l’uomo forte” della politica italiana: Bettino Craxi, leader di quel partito socialista che Grillo paragona a una banda di ladri. 

Scoppia uno scandalo, l’incauto giovanotto viene allontanato dai set della TV, inizia una seconda vita. Ora “la vittima della partitocrazia” allestisce i suoi spettacoli di denuncia stile comizio in un circuito non istituzionale, fatto di piazze e stadi. E comincia a cavalcare, in modi spettacolarmente divulgativi, le tematiche della lotta all’inquinamento, ambientale ma anche dell’informazione, in cui può mettere a frutto la sua natura risentita tendente al rabbioso: sono gli anni delle battaglie contro le industrie che non rispettano le norme di sicurezza e colonizzano la vita delle persone imponendo un consumismo sfrenato. 

Il nuovo successo lo trasforma in una sorta di profeta delle “decrescite felici” alla Serge Latouche (l’economista francese teorico dello sviluppo zero), il guru popolare del ritorno a una società preindustriale; alternando denunce motivate a vere e proprie sciocchezze: prese di posizione plateali contro le vaccinazioni in quanto imposte dal sistema sanitario, a favore di ipotetiche cure del cancro o – magari – promozionali della soluzione ecologica per sostituire i detersivi utilizzando una pallina di plastica contenente sferette ceramiche (la fantomatica biowashball). 

Un pubblico sempre più bisognoso di credere e parteggiare, di accuse semplificatorie dei mali del mondo, lo elegge a proprio mito; affollandone gli show. 

Finché nel 2005 il guru Grillo incontra a sua volta il proprio personale guru, colui che gli spalancherà le praterie sconfinate del WEB: GianRoberto Casaleggio, un perito informatico appena allontanato dalla direzione di una società controllata dal colosso telefonico Telecom Italia per i deficit accumulati; riciclatosi in creatore e gestore di siti con una propria dittà di consulenza (la Casaleggio Associati). 

È amore a prima vista: il 26 gennaio 2005 Grillo dà totale carta bianca al nuovo amico per la realizzazione del blog, contenuti in primo luogo, intestato a proprio nome. Cui presto sarà affiancato il “meetup Amici di Beppe Grillo” (“per comunicare e coordinare localmente”, si dirà in un primo momento). 

Il visionario Casaleggio, autore di un video fantasy-naif “Gaia” in cui prefigura prossimi conflitti mondiali con svariati miliardi di morti e successivo passaggio alla e-democracy planetaria (fornendo persino la data esatta dell’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale attraverso Internet: 14 agosto 2054), inizia subito a bombardare i militanti che visitano il sito con le sue utopie pittoresche quanto banalizzanti (e, poi vedremo, manipolatrici) sulla democrazia diretta: la rappresentanza è finita, i partiti sono finiti, la nuova politica sorgerà dalla rete. 

Banalizzazioni pittoresche – dunque – come è mestiere tipico della consulenza di comunicazione, specializzata nell’infiocchettare messaggi “a fumetti” e luoghi comuni. Intanto Grillo smette improvvisamente di attaccare nei suoi spettacoli le aziende in rete con Casaleggio, a cominciare dagli amici ritrovati di Telecom. Se negli anni precedenti le performances del comico si concludevano distruggendo a bastonate un personal computer, ora il PC è il nuovo tabernacolo di una rivelazione dal sapore tecno-messianico. 

La nuova frontiera diventa l’impegno diretto nella politica nazionale; sotto l’influsso del suo spin-doctor, che pure ha vissuto in prima persona una sola esperienza diretta in ambito pubblico. Quando, si candidò senza successo nel 2004 alle elezioni per il consiglio comunale di Settimo Vittone, il paesino torinese dove mantiene la propria residenza, in una lista locale ispirata dal partito di Berlusconi. Prendendo sei voti sei. 

Ma giocarsi la faccia in prima persona non è congeniale a Casaleggio, che è più tipo da restare dietro le quinte a tirare i fili; nonostante la vistosa capigliatura riccioluta quattrocentesca alla Botticelli. Magari qualcuno lo definisce un Rasputin. 

L’uomo-immagine resta Grillo; che, dopo aver lanciato sul blog la battaglia mediatica “Parlamento Pulito”, inizia la serie dei “Vaffa-day” (con il “vaffa” che è la contrazione di un modo estremamente volgare con cui mandare al diavolo qualcuno; e il “V” riprende il titolo di un film fantapolitico di grande successo del 2005 - “V for Vendetta”- tratto da un romanzo a fumetti interiorizzato dagli immaginari di massa). 

L’8 settembre 2007 il “Vaffa” riunisce nella piazza principale di Bologna oltre cinquantamila partecipanti allo show di Grillo, che presenta la raccolta-firme per tre proposte di legge ad iniziativa popolare: divieto della candidatura alle cariche pubbliche di pregiudicati; divieto di rielezione dopo due legislature; elezione diretta dei rappresentanti. Le sottoscrizioni risulteranno 336mila, sei volte più di quante erano legalmente necessarie per la presentazione di tali proposte. 

Da qui parte l’avventura del M5S, iniziando a mietere successi che superano di gran lunga le percentuali accreditate dai sondaggi. Le elezioni amministrative fungeranno da prova generale: nel 2010 il movimento presenta le proprie liste in cinque regioni, con un buon successo in Emilia-Romagna dove incassa il 7% dei voti ed elegge due consiglieri; l’anno successivo partecipa ai rinnovi di 21 capoluoghi di provincia su 28, ricevendo consensi perfino al 30% e vincendo nel ballottaggio la poltrona di sindaco nell’importante città di Parma, con Federico Pizzarotti che sconfigge il candidato del centrosinistra appoggiato dall’intero establishment cittadino. 

Ormai risulta evidente come il Grillismo riesca a intercettare quello che ormai è diventato il primo partito italiano, nel crollo di credibilità delle formazioni ufficiali in campo: l’astensione nel non-voto. I critici parlano di “antipolitica”; ma gli osservatori di orientamento imparziale preferiscono usare l’espressione “altra politica”; intendendo con ciò sottolineare la crescita della domanda di una politica meno oligarchica e più vicina ai cittadini, più democratica. 

Sull’onda dei primi successi arriverà lo straordinario risultato del 24-25 febbraio scorsi. Quello che appare il punto di massima ascensione del Cinquestelle. Perché è da qui che incominciano i problemi. 

C’è da dire che – a quanto pare - l’esito non era stato previsto neppure dal duo Grillo-Casaleggio, i quali ritenevano di dover affrontare una fase all’opposizione in cui avere tutto il tempo per crescere e consolidarsi. Mentre ora si trovano in prima linea, con un personale parlamentare di neofiti, a fronte di sfide complesse e le aspettative pressanti del proprio elettorato; che si potrebbe ripartire a metà tra l’appartenenza e il voto d’opinione. 

Infatti la presenza del M5S risulta incastrata nel principio cardine ribadito in campagna elettorale: noi non facciamo alleanze. Una dichiarazione di incrollabile “purezza”, ma che contrasta con la necessità di incidere sul quadro politico, pena l’insignificanza. E qui balzano in evidenza due aspetti che sino a quel momento erano rimasti sottotraccia: la natura padronale e verticistica della leadership, lo stringente controllo repressivo del dibattito interno. Aspetti in totale contrasto con lo spirito conclamato del Movimento: il democraticismo di base e l’orientamento libertario. 

In effetti avrebbe dovuto far riflettere il fatto che il marchio “Cinquestelle” è proprietà personale del signor Giuseppe (Beppe) Grillo, registrata con tanto di atto notarile. E in base a questo diritto esclusivo il Capo può permettersi di espellere chi non si adegui ai suoi diktat imposti come linea ufficiale. 

Si era cominciato già agli albori della vicenda con la cacciata di un socio storico come Valentino Tavolacci, consigliere comunale di Ferrara e reo di aver indetto una riunione dei grillini locali senza il placet del capo, fino all’espulsione della senatrice Adele Gambaro, per aver osato criticare i toni eccessivamente truculenti dei post di Grillo, dove gli insulti si alternano alle storpiature irridenti dei nomi. 

I boatos interni dicono che l’ira del Padre-Padrone scatta a comando come esecuzione delle sentenze poliziesche di Casaleggio; il “Beria” del M5S, che filtra sistematicamente le opinioni indirizzate al sito sociale dai militanti, soprattutto se critiche. Strano atteggiamento per un teorico del “mondo nuovo” della democrazia via WEB many-to-many (tanti che comunicano a tanti). Nel “mondo vecchio” la si chiamava censura. 

Aspetti che contraddicono in maniera lampante la fattispecie dell’autocomunicazione orizzontale di massa, di cui si diceva; tanto che la democrazia in rete appare più uno slogan che non un’effettiva applicazione di innovativi criteri liberatori. Difatti le consultazioni online sulle decisioni cruciali che si sono dovute prendere, a partire dalla scelta dei candidati nelle liste elettorali del Movimento, sono avvenute nella più assoluta opacità e nessuno ha potuto esercitare il minimo controllo sui risultati promulgati in perfetto stile top-down dai consulenti della Casaleggio Associati. 

Pratiche da cui risalta la vera cultura politica della leadership a due teste di Cinquestelle: verticismo padronale con una riverniciatura di parole alla moda. Come lo si può constatare nell’affermazione dogmatica ricorrente che “la divisione politica tra Destra e Sinistra sarebbe superata”; in cui si incrocia l’intento del marketing pigliatutto con la retorica di Destra nei suoi intenti mimetici. Il tipico armamentario del revival reazionario che rompe gli schemi di gioco indossando i panni del rinnovamento, grazie al quale si è imposta l’egemonia mondiale Neocon. 

Di conseguenza i primi passi del M5S in Parlamento hanno coinciso con un’accelerata perdita di spinta propulsiva. Anche perché il rifiuto di dialogare con qualsivoglia interlocutore ha prodotto un effetto inevitabile: lo stallo; la marginalizzazione volontaria. 

La prima decisione da prendere era quella relativa al rinnovo di presidenza della Repubblica e, nonostante il Movimento avesse candidato una personalità di altissimo livello morale e intellettuale come il giurista Stefano Rodotà, il suo isolazionismo ha determinato il fallimento della proposta. Nell’impasse conseguente, si determinava una forte spinta a convergere tra le altre forze politiche, che si è tradotta nella riconferma del presidente uscente, il quasi novantenne Giorgio Napolitano; il quale diventava il vero regista del ripristino di quegli equilibri di cui Grillo e i suoi seguaci avevano garantito la liquidazione. 

Difatti sotto la supervisione di Napolitano, un ex comunista ossessionato dall’idea che i partiti devono tenere sotto controllo la società, è nato quel governo cosiddetto delle “larghe intese”, guidato dall’esponente del Partito Democratico Enrico Letta (tra l’altro nipote di quel Gianni Letta che è il primo consigliere di Silvio Berlusconi), che formalizza la collusione spartitoria tra Centrosinistra e Destra. Anche questo un fenomeno patologico che i rifondatori Cinquestelle della politica avevano promesso di estirpare. 

Sicché, incapace di governare le trasformazioni, che pure aveva avviato con lo sfondamento elettorale, mentre il quadro politico gli si sta richiudendo sulla testa, il M5S pensa di ribadire la propria (sterile) verginità con gesti spettacolari: rinunciando ai finanziamenti elettorali previsti e rendendo parte degli emolumenti dei propri parlamentari. Si intuisce che attende ulteriori deterioramenti del quadro politico, per ritornare a fare quello che gli riesce meglio: la campagna elettorale. 

Intanto vengono sempre di più al pettine i nodi di una democrazia in rete recitata più che praticata. Se ne è avuta ulteriore conferma nel mese di giugno, quando è stato rinnovato il consiglio comunale della Capitale e i Cinquestelle dovevano individuare il loro candidato sindaco con la solita consultazione in rete di tipo propagandistico: dei 2.383 aventi diritto a partecipare, i voti espressi sono stati grossomodo un migliaio. Ridicolo il numero di votanti per una città come Roma, a fronte dei suoi 2,7 milioni di abitanti, penosa la quantità di indicazioni espresse. 

Ma se non ci facciamo ingannare dalle chiacchiere “internettare”, forse riusciamo a capire meglio l’intima natura del Movimento. Che non è quella del networking, bensì dello star system. Ossia, quanto il costituzionalista francese Bernard Manin definisce “democrazia del pubblico”, in cui il leader si trasforma nella star tipo reality televisivo e – di conseguenza – il rapporto che i cittadini intrattengono nei suoi confronti è quello dell’identificazione acritica; insomma, spettatori, il cui unico diritto è quello di applaudire. 

La personalizzazione spettacolarizzata della politica: regola che Silvio Berlusconi ha imposto da una ventina di anni sulla scena italiana; e di cui Beppe Grillo si rivela il più recente erede. Non a caso il modello star system risulta particolarmente efficace per vincere le elezioni, quanto del tutto inadeguato per esprimere gruppi dirigenti in grado di governare. Non per niente le ultime rilevazioni in materia di orientamenti elettorali segnalano una forte tendenza all’ulteriore emigrazione verso l’assenteismo, nella convinzione (perniciosa per la salute democratica del paese) che “tanto non cambierà niente”. 

Probabilmente la grande opportunità di sbloccare il gioco politico è andata perduta, in quanto leader improvvisati come Grillo e Casaleggio hanno dimostrato di ignorare la regola fondamentale del successo in materia: cogliere i tempi. Anche se la congiuntura potrebbe offrirgli una seconda opportunità. Nella crisi economica e sociale in costante avvitamento, mentre la disoccupazione cresce e diventa sempre più difficile per le famiglie arrivare a fine mese. 

Ma puntare sul “tanto peggio tanto meglio” rischia di rivelarsi un calcolo sbagliato: al timone del governo c’è ora un giovane molto abile quale Letta, cresciuto all’antica scuola dei cattolici in politica, che ha un solo compito: tirarla per le lunghe. Ossia far durare il governo ad ogni costo, in modo che l’indignazione sociale scivoli gradatamente nell’abbandono del fatalismo più apatico/rinunciatario; la carica dirompente dell’Altrapolitica sfumi nella delusione da inconcludenza. 

D’altro canto, l’Italia non è forse il Paese del Gattopardo e del suo motto immortale “tutto deve cambiare perché nulla cambi”? Inoltre – parlando a proposito di star system – non è anche la terra di maschere famose, da Arlecchino a Pulcinella?

venerdì 17 gennaio 2014

Decalogo M5S

Pirellone, le dieci regole per i grillini: 
"Autocontrollo e poche chiacchiere"

Definite le regole per i consiglieri del Movimento 5 Stelle alla Regione Lombardia. "Non bisogna parlare di questioni delicate interne al gruppo con attivisti, staff, consiglieri di altri gruppi politici"

la Repubblica, cronaca di Milano

17 gennaio 2014

di MATTEO PUCCIARELLI
 
Regola numero uno: «Mantenere l’aplomb in consiglio regionale». Quando? «Sempre e comunque». Quindi un «comportamento disinvolto, sicuro; autocontrollo». È il primo dei dieci comandamenti concordati e approvati dai consiglieri eletti al Pirellone dal Movimento Cinque Stelle. Stilati dopo una riunione di oltre due ore, mandata rigorosamente in streaming. Arrivano a quasi un anno dall’insediamento dei nove. 

E si vede che c’era bisogno di fare un punto e di rinforzare lo spirito di gruppo, «anche perché gli altri cercano di dividerci con il gossip, il metodo più antico del mondo. Ci stiamo conoscendo e non sempre è facile superare le divisioni caratteriali», ragiona con i suoi la capogruppo Paola Macchi. Del resto “il personale è politico”, e lo si sosteneva fin dagli anni Settanta. E anche il partito-famiglia con regole ferree e attenta cura dei comportamenti fra compagni è una visione molto vecchio Pci.

Allora, decalogo alla mano, seconda direttiva: arrivare sempre preparati in consiglio. E chi quella volta non ce l’ha fatta «si allinea pacatamente, serenamente». Oppure: «Quando uno di noi parla, tutti ad ascoltarlo con attenzione». Ancora: «Supportiamo i colleghi attaccati in aula e in commissione». Dovere del consigliere M5S è anche «difendere i colleghi dalle battute degli altri, durante le relazioni interpersonali». 

Siccome nelle settimane e nei mesi scorsi si è vociferato nei corridoi di vere o presunte divisioni interne dei grillini — da una parte i “pragmatici”, dall’altra gli “oltranzisti”, un po’ come avviene al movimento in ambito nazionale, nulla di nuovo — d’ora in poi «non parlare di questioni delicate interne al gruppo con attivisti, staff, consiglieri di altri gruppi». E non dire nulla nemmeno ai «dipendenti del palazzo». Sì poi all’ostruzionismo in aula, ma «preparandosi per tempo e scegliendo bene i temi». Che è un po’ lapalissiano, ma insomma, mai farsi prendere dalla foga dell’ostruzionismo all’improvviso.

Com’è noto i consiglieri del M5S trattengono per sé 5mila euro lordi al mese di stipendio, il resto va tutto in un conto corrente comune in attesa che la Regione attivi un fondo ad hoc, da destinare poi alle piccole e media imprese. Ma — altra questione affrontata, viste le richieste di chiarimento della base, sempre molto pressante sui meetup locali — le spese per la baby sitter delle elette donne possono rientrare nei rimborsi (che pure spettano) oppure no? 

Silvana Carcano ha scelto la linea del no, paga di tasca sua. Iolanda Nanni è contraria: «Questo spirito da carmelitani scalzi non va bene, se uno deve dedicare del tempo alla collettività deve farlo con la dovuta tranquillità». Infine postilla sugli orari a beneficio degli attivisti sintonizzati da casa, stavolta la Macchi: «Non è che se mi vedono a fare la spesa alle 3 del pomeriggio significa che non faccio un tubo. A quanti incontri partecipiamo dalle 21 in poi?».

il bello della rete


IL RINASCIMENTO TECNOLOGICO
Le banche dati che ci obbligano a essere intelligenti

Come accadde secoli fa con la stampa, gli archivi elettronici permetteranno un progresso del sapere. Il nostro apparato cognitivo può liberarsi dall'obbligo di ricordare e dedicarsi all'invenzione

la Repubblica, 17 gennaio 2014

di MICHEL SERRES

Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi di concentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.

Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione.

Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni. Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora.

La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni.

Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza?

Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi.
Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.

Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà.

Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.

Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine.

Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partire da esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.

Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura.
Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo.

Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena.

Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia!

All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative. Decisamente, bisogna riscrivere Pantagruel o gli Essais.

Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!

Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.

giovedì 16 gennaio 2014

Scanzi: Yoko Casaleggio


M5S, Renzi, Casaleggio e la ‘democrazia diretta’

Il Fatto Quaotidiano
Il Movimento 5 Stelle rischia molto nel rifiutarsi di vedere le carte di Matteo Renzi, ancor più quelle sulla legge elettorale. Una tale linea politica è stata accompagnata anche da discrete castronerie costituzionali, tipo “questo Parlamento è illegittimo” o “il Mattarellum va ripristinato automaticamente perché è l’ultima legge promulgata da un Parlamento legittimo”. Macché. La Consulta ha detto che questo Parlamento è legittimo (bruttino, ma legittimo) e – come scritto da Travaglio e dal sottoscritto – a essere ripristinato automaticamente non è il Mattarellum ma ilproporzionale puro del 1992.
Ieri Gianroberto Casaleggio ha incontrato a Roma alcuni parlamentari M5S. Ha detto che quelle di Renzi sono proposte “astratte ed evidentemente incostituzionali” e che “esiste già un testo M5S e gli unici fino ad ora a depositare una proposta innovativa e fatta bene siamo stati noi”
Casaleggio ha due caratteristiche. La prima è che, chissà perché, ci tiene molto a essere il frontmandella cover band di Yoko Ono. La seconda è che ha sempre questo approccio allegramente democratico secondo cui o la pensi come lui o sei un cretino amico della casta. Il fatto che la maggioranza degli elettori voti M5S “nonostante Casaleggio” e ritenga che la sua cosa migliore sia l’acconciatura, evidentemente non lo tocca. Anche Grillo è spesso criticato, ma la sua figura resta ancora decisiva e sostanzialmente aggregante: gli si riconosce non solo la fama ma anche la coerenza passionale, che lo porta talora a derive odiosamente incazzose. 
Casaleggio è assai meno amato. E Casaleggio sbaglia in continuazione: per lui Il Fatto Quotidiano avrebbe chiuso subito, per lui la lista civica destrorsa “Per Settimo” di Vito Groccia era il futuro (giugno 2004, Yoko Casaleggio prese sei voti: trionfo), per lui il nome a Napolitano non andava fatto, per lui il reato di clandestinità non andava abolito, per luilo Ius Soli è il Male o quasi. Proprio non ce la fa ad accettare che la maggioranza di chi vota M5S appartiene ai delusi di sinistra, asserzione banalmente inconfutabile che però cruccia anche brave senatrici come Barbara Lezzi (mi ha dedicato una bella replica; le ho risposto; e al secondo suo intervento aveva già terminato gli argomenti. Peccato, ma resta brava). 
Casaleggio è per certi versi un Darko Pancev convinto di essere Van Basten. Sbaglia come tutti, forse anche di più. Ma è certo persona molto intelligente, acuta, scaltra. Senza di lui il Movimento 5 Stelle non sarebbe mai nato. Le sue affermazioni di ieri aiutano a capire la dinamica di una forza politica inedita, che continua a far scrivere bischerate titaniche ai “fenomeni” del giornalismo italiano. Casaleggio ha ribadito che la legge elettorale arriverà dalla base, attraverso una consultazione online cominciata ieri con l’intervento arguto di Aldo Giannuli. La consultazione terminerà a fine febbraio e solo allora si saprà quale legge elettorale vuole veramente il Movimento (anche se un testo esiste già, come è esistito l’appoggio alla mozione Giachetti). 
Tale aspetto è decisivo: il Movimento 5 Stelle non fa nulla senza consultare la Rete. Per questo, ad esempio, non venne proposto il nome di Rodotà o Settis o Zagrebelsky a Re Giorgio Napolitano: perché era un nome “ufficioso”, non deciso dalla base. E’ questo il tentativo, o forse il sogno, della“democrazia diretta”. Una democrazia diretta che, secondo Casaleggio, si è già vista proprio con il referendum sul reato di clandestinità
Non concordo con Travaglio quando dice che la consultazione è stata giustamente fatta senza preavviso per evitare attacchi hacker: mi pare una scusa debole e proprio la mancanza di preavviso ha forse contribuito alla scarsa affluenza (neanche un quarto degli aventi diritti al voto). Continuo a lamentare l’assenza di una piattaforma realmente trasparente, che servirebbe anzitutto per le imminenti europarlamentarie, altrimenti qualcuno dirà (certo sbagliando) che “Casaleggio si sceglie i candidati”. E 25mila votanti restano pochi per parlare di democrazia diretta compiuta e per decidere la linea di una forza votata undici mesi fa da quasi nove milioni di elettori. 
Attenzione, però: 25mila sono pochi, ma non sono niente. La democrazia diretta del M5S è embrionale ma quantomeno in itinere: quantomeno inseguita. La consultazione online può essere criticata da osservatori neutrali, non certo da chi milita o vorrebbe militare (tifosi, giornalisti, giornalai) nel Pd: ha forse chiesto il Pd alla base se voleva Napolitano o Rodotà al Quirinale? Ha forse chiesto il Pd alla base se voleva o no il finanziamento degli F35, se voleva la conferma di Alfano e Cancellieri, se vuole l’allontanamento della De Girolamo? 
Il Pd si rifà trucco e verginità ogni tanto con qualche lodevole e plebiscitaria Primaria; poi però continua a fregarsene anzitutto del suo stesso elettorato. Umiliandolo, sconfessandolo. Il M5S, se non altro, ci prova. Riconoscerlo non è reato, e magari giova anche alla vilipesa onestà intellettuale di questo paese. E’ un percorso del tutto nuovo per la politica italiana, che va seguito con interesse.